Italia - Rassegna stampa settimanale dal 17 al 23 febbraio 2024

Le news tributarie più importanti della settimana raccolte dai professionisti di Fidinam Italia in materia di: Legislazione, Giurisprudenza, Prassi, Dottrina, Attualità

Legislazione

  • D.Lgs. 221/2023 del 30.12.2023, commentato in “Adempimento collaborativo anche per chi partecipa allo stesso consolidato fiscale”, Il Quotidiano del commercialista del 19.2.2024: Una delle novità più significative apportate dal D.Lgs. 221/2023 in materia di regime di adempimento collaborativo, istituito con il D.Lgs. 128/2015, riguarda l’ampliamento dell’ambito soggettivo e, in particolare, l’estensione alle entità che partecipano al medesimo consolidato fiscale nazionale. Prima di tale intervento, potevano accedere al predetto regime i soggetti con determinati requisiti dimensionali legati al volume d’affari e quelli che intendevano dare esecuzione alla risposta dell’AdE all’istanza di interpello sui nuovi investimenti ai sensi dell’art. 2 del D.Lgs. 147/2015. Inoltre, operava la fattispecie del c.d. “trascinamento”, in forza della quale un soggetto che intende aderire al regime, avendone i requisiti di ammissibilità, può richiedere anche l’ammissione dell’impresa del gruppo che, pur non avendo i requisiti dimensionali, svolge funzioni di indirizzo sul tax control framework. L’ambito soggettivo di applicazione era stato ulteriormente potenziato prevedendo che, nel caso di adesione al regime di adempimento collaborativo da parte di un soggetto passivo facente parte del Gruppo IVA, il suddetto regime si estendesse obbligatoriamente a tutte le società partecipanti al Gruppo IVA (art. 20 co. 1 del DL 119/2018). In attuazione del criterio direttivo previsto dalla legge delega, l’art. 1 del Decreto legislativo in oggetto, modificando l’art. 7 del D.Lgs. 128/2015, ha ampliato la platea delle imprese interessate all’adempimento collaborativo anche riservando il regime alle imprese che appartengono al medesimo consolidato fiscale nazionale (art. 117 del TUIR) a condizione che: (i) almeno un soggetto aderente alla tassazione di gruppo possieda i requisiti dimensionali; (ii) il gruppo adotti un sistema integrato di rilevazione, misurazione, gestione e controllo del rischio fiscale gestito in modo unitario per tutte le società del gruppo. Verosimilmente tale soluzione restrittiva si spiega con l’esigenza di consentire un ingresso graduale delle imprese nel regime di adempimento collaborativo, considerato il contestuale ampliamento avvenuto con la riduzione dei limiti dimensionali.
  • Bozza del D.Lgs. di riforma delle sanzioni attuativo della L. 111/2023 (legge delega di riforma fiscale), commentata in “Liquidazione automatica e controllo formale irrilevanti per l’inesistenza del credito”, Il Quotidiano del commercialista del 23.2.2024: Lo schema di decreto legislativo in tema di sanzioni, approvato in via preliminare dal Consiglio dei ministri il 21.2.2024, interviene sulle indebite compensazioni dei crediti di imposta, tema che dà origine, ormai da anni, a un ingente contenzioso. Stando alla bozza circolata: (i) per i crediti non spettanti, la sanzione viene abbassata dal 30% al 25%; (ii) per i crediti inesistenti, la sanzione sarà del 75% e non più dal 100% al 200%, tuttavia, potrà essere aumentata dalla metà al doppio “qualora i fatti materiali posti a fondamento del credito siano oggetto di rappresentazioni fraudolente, attuate con documenti materialmente o ideologicamente falsi, simulazioni o artifici”. Se la bozza non verrà cambiata, queste riduzioni opereranno per le violazioni commesse a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto, quindi niente favor rei. Relativamente alla definizione agevolata al terzo delle sanzioni ex artt. 16 e 17 del D.Lgs. 472/97: (i) per gli avvisi di recupero emessi sino al 29 aprile, essa è ammessa solo per i crediti non spettanti, operando l’art. 13 commi 4 e 5 del D.Lgs. 471/97; (ii) per gli avvisi di recupero emessi dal 30 aprile, essa sarà ammessa per i crediti non spettanti e per i crediti inesistenti, operando l’art. 38-bis del DPR 600/73, introdotto dal D.Lgs. 13/2024. Molto attesa era una più puntuale distinzione tra crediti non spettanti e crediti inesistenti. Tralasciando le frodi (i cui crediti pacificamente rientrano nell’inesistenza) e i crediti compensati in violazioni di limiti legali o delle modalità di utilizzo (rientranti, altrettanto pacificamente, nella non spettanza) il legislatore ha cercato di rendere più chiaro il concetto di credito inesistente, potremmo dire mediante interpretazione a contrario. In base al nuovo art. 13 comma 4 del D.Lgs. 471/97, “si considera credito non spettante il credito, diverso da quello di cui al comma 5, fondato su fatti reali non rientranti nella disciplina attributiva per il difetto di specifici elementi o particolari qualità”, mentre il comma 5 continua a prevedere che “si considera credito inesistente il credito per il quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo”. 


Giurisprudenza

  • Ordinanza Cassazione, Sez. Civ., n. 4357 del 19.2.2024, commentata in "Non vale per l’acquirente l’impegno del donatario all’alloggio gratis vitalizio", IlSole24Ore del 20.2.2024, pagina 34: Se un donatario assume verso il donante, mediante un onere contenuto nel contratto di donazione, l’obbligazione di permettere al donante l’alloggio gratuito vitalizio nell’immobile donato, tale obbligo, anche se risultante dai registri immobiliari, non è opponibile all’acquirente dell’immobile, nel caso di specie, all’aggiudicatario di una procedura esecutiva. Con l’ordinanza in oggetto, la Cassazione decide afferma che, nel caso descritto, non si applica la norma di cui all’art. 1599, comma 3, del Codice civile, per la quale le locazioni di beni immobili non trascritte non sono opponibili al terzo acquirente, se non nei limiti di un novennio dall’inizio della locazione; norma che, letta in negativo, significa che le locazioni sono opponibili all’acquirente nei limiti del novennio, se non trascritte, e per la loro intera durata ultranovennale, se risultanti da un atto trascritto. La Cassazione ha dunque annullato la decisione impugnata (adottata in un giudizio di opposizione agli atti esecutivi) nella quale era stato ritenuto che in favore dei donanti avrebbe dovuto intendersi istituito “un diritto personale di godimento, in qualche misura assimilabile al diritto del locatario” (opponibile ai terzi ai sensi dell’art. 1599) e che nessuna rilevanza avesse il fatto che non fosse previsto il pagamento di alcun canone da parte del donante: l’obbligazione assunta dal donatario verso i donanti non era una “mera liberalità senza contropartite”, ma trovava la “sua giustificazione economica” nel fatto di essere oggetto dell’onere apposto alla donazione. Il giudice della legittimità ha contestato la motivazione della decisione impugnata anzitutto perché l’attribuzione ai donanti di un diritto vitalizio è in contrasto con la durata al massimo trentennale della locazione (limite previsto dall’art. 1573 del C.c.). Inoltre, e soprattutto, la Cassazione rileva che la locazione è un contratto a prestazioni corrispettive e quindi l’impegno oggetto dell’obbligazione modale come contropartita del godimento del bene si pone in contrasto con il principio per cui l’onere della donazione non può assumere «natura di corrispettivo, trasformando il titolo dell’attribuzione da gratuito in oneroso». Si tratta, dunque, tutt’al più, di un diritto personale atipico di godimento, che va ricollegato al “modus” della donazione, e quindi privo dei caratteri che gli consentono di essere opposto ai terzi aventi causa e quindi anche ai creditori procedenti e all’aggiudicatario.
  • Ordinanza Cassazione, Sez. Civ., n. 4510 del 20.2.2024, commentata in "Inammissibile il ricorso sull’accertamento duplicato e rinotificato", Il Quotidiano del Commercialista del 21.2.2024: Quando uno stesso atto impositivo viene notificato due volte e seguono avverso ciascun atto distinte impugnazioni, per stabilire le sorti delle medesime sotto il profilo del rispetto dei sessanta giorni per ricorrere occorre accertare se la seconda notificazione dell’atto impositivo sia avvenuta per sanare (o meno) l’invalidità del primo atto. Pertanto, nel caso in cui il secondo atto sani il vizio di notifica del primo atto, è il secondo atto che produce l’effetto della messa a conoscenza dell’atto da parte del destinatario, con decorrenza del termine di 60 giorni per impugnare dalla notifica del secondo. Invece, nel caso in cui la seconda notificazione dell’atto impositivo non sia stata effettuata per sanare l’invalidità del primo atto impositivo e sia sopravvenuta oltre i 60 giorni dalla prima, l’impugnazione che il destinatario abbia proposto è inammissibile per tardività, avendo egli sin dal primo atto avuto piena ed effettiva conoscenza del medesimo. Questo è in sostanza il principio espresso dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza in oggetto, resa a fronte di una fattispecie in cui il contribuente era destinatario di due avvisi di accertamento con medesimo numero di atto e contenuto, ma che, differivano solo nei soggetti sottoscrittori dell’atto medesimo. ll contribuente, forse a titolo prudenziale, procedeva a impugnare entrambi gli avvisi. Prescindendo dal caso di specie, dal principio di diritto enunciato la sentenza sembra accogliere una tesi eccessivamente rigorosa che va a danno del contribuente, non soffermandosi sulle ragioni che possono spingere l’ente impositore ad effettuare due notifiche. Pare, quindi, che sul contribuente sia rimessa una valutazione prognostica dell’operato legittimo o meno della parte pubblica, che si riverbera sulla inammissibilità del ricorso. La Suprema Corte fa ricadere sul contribuente l’onere di “accertare” le ragioni che avrebbero indotto l’Amministrazione finanziaria a operare la rinotifica del medesimo atto.
  • Sentenza Cassazione, Sez. Trib., n. 4318 del 19.2.2024, commentata in "Il valore dell’azienda può coincidere con l’avviamento e questo con il personale", Il Quotidiano del Commercialista del 20.2.2024: La Cassazione, con la sentenza in oggetto, torna sul tema della valutazione dell’avviamento in caso di cessione d’azienda ai fini dell’imposta di registro. In particolare, nel caso di specie, la Suprema Corte rigetta il ricorso avverso la sentenza di merito, che aveva avallato il metodo di valutazione dell’azienda utilizzato dall’Agenzia delle Entrate, che aveva, in primo luogo, identificato il valore aziendale nel solo avviamento e, poi, identificato l’avviamento nel valore del personale dipendente. Dopo aver ricordato che la scelta tra i vari metodi per la valutazione del valore dell’azienda costituisce oggetto di un giudizio di fatto rimesso al prudente apprezzamento del giudice di merito, immune dal sindacato di legittimità se adeguatamente motivato, la Corte si sofferma, quindi, ad esaminare se le motivazioni in tal senso addotte dal giudice di secondo grado fossero adeguate.  Nel caso di specie, la rettifica era fondata sul solo fattore dell’avviamento, identificato nel capitale umano, ritenuto idoneo a rappresentare il reale valore di mercato del ramo di azienda ceduto, ai fini dell’art. 51 del DPR 131/86, posto che, tenendo conto della natura e dell’oggetto dell’azienda (attività di back office e gestione documentale), esso sostanzialmente esauriva l’intero valore aziendale. In questo contesto, il giudice aveva motivato adeguatamente anche l’adozione, tra i vari possibili metodi per quantificare l’avviamento/capitale umano, “del criterio estimativo del costo di sostituzione del personale stesso”.
  • Sentenza Cgt Lombardia, n. 494/2024, commentata in "I requisiti del regime di impatriato si valutano al momento del ritorno", IlSole24Ore del 17.2.2024, pagina 24: La Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado della Lombardia, con la sentenza in oggetto, ha stabilito che il possesso dei requisiti di «impatriato» deve essere valutato con riferimento alla normativa vigente pro tempore e non con riferimento a quella vigente nell'anno di presentazione della dichiarazione dei redditi. Nel caso di specie, il contribuente si era opposto al diniego di rimborso ritenuto dall’Agenzia delle Entrate non spettante per mancato riconoscimento dello status di impatriato (art. 16, D.lgs. 147/2015). Secondo l’AdE il contribuente non risultava residente in Italia nei due periodi di imposta antecedenti il trasferimento nel nostro Paese, pertanto, la normativa applicabile era quella post modifiche del DL 34/2019 in vigore dal 1.5.2019, anno cui la dichiarazione si riferiva (2020). Il contribuente evidenziava, invece, come affermato anche dalla stessa controparte, che era in Italia già dal 22.11.2018, e ciò comportava l’applicazione la disciplina di cui all'art. 16 del D.Lgs. 147/2015, vigente prima delle modifiche apportate dal DL 34/2019. Peraltro, aveva indicato nel modello 730/2021 il codice “4” e i redditi oggetto dell’agevolazione nella misura del 50% e non del 30%. Aggiungeva, inoltre, che il decreto MEF 26.5.2016 aveva previsto quale unico criterio di decadenza la mancanza della residenza in Italia per almeno due anni (requisito posseduto). I giudici di primo grado respingevano il ricorso recependo la tesi di parte pubblica. Di diverso avviso i giudici di secondo grado, in riferimento alla circolare 33/E 2020 e ad un parere del MEF (prot. 352447/2020), hanno chiarito che la modifica del DL 34/2019 ha esteso le maggiori agevolazioni anche ai lavoratori rientrati dal 30.4.2019 con la detassazione del 50% e non del 70% del reddito prodotto in Italia, correggendo quindi la disparità di trattamento. Considerato, pertanto, che il contribuente era rientrato prima, gli andava applicata la disposizione vigente prima delle modifiche.

Prassi

  • Circolare n. 3 del 16.2.2024, commentata in "Il lavoratore trasferito all’estero può accedere al beneficio prima casa", Il Quotidiano del Commercialista 17.2.2024: Con la circolare in oggetto, l’Agenzia delle Entrate ha fornito alcuni chiarimenti su temi disparati, seppur relativi tutti al macrosettore delle imposte indirette, unificati dal minimo comune denominatore di essere stati oggetto di modifiche normative introdotte nel corso del 2023. Per quanto concerne il settore impositivo, i chiarimenti riguardano l’IVA, l’IVAFE e l’imposta di registro; per quanto riguarda i provvedimenti normativi interessati, si tratta della L. 213/2023, del DL 145/2023 e del DL 69/2023. Relativamente ai chiarimenti concernenti l’imposta di registro, in particolare, l’Agenzia delle Entrate si sofferma sulla disposizione introdotta dall’art. 2 del DL 69/2023, che, intervenendo sulla lett. a) della nota II-bis all’art. 1 della Tariffa, parte I, allegata al DPR 131/86, ha modificato le condizioni di accesso all’agevolazione prima casa per i contribuenti trasferiti all’estero, tale da adeguarsi alle osservazioni emerse in seno alla procedura di infrazione (n. 2014/4075), a carico dell’Italia, in cui si lamentava che la normativa previgente contenesse una discriminazione, nell’accesso al beneficio, basata sulla sola cittadinanza. Pertanto, la nuova formulazione della disposizione non contiene più alcun riferimento alla cittadinanza e dispone che l’acquirente trasferito all’estero per ragioni di lavoro, che abbia risieduto o svolto la propria attività in Italia per almeno cinque anni, può accedere al beneficio prima casa a condizione che l’immobile acquistato sia ubicato “nel comune di nascita o in quello in cui aveva la residenza o svolgeva la propria attività prima del trasferimento”. In proposito, l’AdE precisa che il riferimento al rapporto di lavoro va intesa come riferito a “qualsiasi tipologia di rapporto di lavoro” e non necessariamente di tipo subordinato, ma specifica che il rapporto di lavoro deve sussistere già al momento dell’acquisto dell’immobile: non è quindi agevolato l’acquisto della prima casa effettuato prima del trasferimento per ragioni di lavoro. Invece, per quanto concerne il requisito attinente al legame con l’Italia per i 5 anni anteriori al trasferimento, l’AdE precisa che l’attività resa in Italia nei 5 anni precedenti, potrebbe anche essere priva di remunerazione e che il quinquennio non deve essere necessariamente continuativo.
  • Risposta ad istanza di interpello n. 48 del 22.2.2024, commentata in "Nella scissione i tax credit per R&S, energia e pubblicità sono disponibili dalle parti", Il Quotidiano del Commercialista 23.2.2024: L’Agenzia delle Entrate, con la risposta in oggetto, ha escluso, a quanto consta per la prima volta, che i crediti d’imposta per attività di ricerca e sviluppo, per le imprese non energivore e per gli investimenti pubblicitari rientrino tra le “posizioni soggettive” di cui all’art. 173 comma 4 del TUIR. Secondo l’Agenzia, per stabilire il corretto criterio di attribuzione di ciascun singolo credito, è necessario verificare se gli stessi si qualifichino come una posizione soggettiva. In caso affermativo, occorrerà valutare se tale posizione sia connessa (specificamente o per insiemi) agli elementi del patrimonio scisso: in tal caso, seguirà integralmente la sorte, in sede di scissione, degli elementi o dell’elemento a cui risulta connessa; in caso contrario, si ripartirà secondo il criterio proporzionale. Qualora invece tali crediti non siano riconducibili tra le “posizioni soggettive”, gli stessi dovranno ritenersi liberamente disponibili dalle parti, secondo quanto stabilito nel progetto di scissione. Nella risposta in oggetto, è stata richiamata la risoluzione n. 22/2006, in base alla quale “Considerato che il diritto maturato in capo alla società scissa di fruire del credito d’imposta rientra tra le posizioni soggettive connesse specificamente ad elementi del patrimonio trasferito, il credito stesso compete alla società cui sia stato attribuito il ramo d’azienda scorporato nell’ambito del quale è stato realizzato l’investimento agevolato, in applicazione del principio generale contenuto nell’articolo 173 del TUIR”. Viene inoltre rilevato che la disciplina agevolativa del credito R&S si caratterizza per la sua sostanziale autonomia rispetto alla ordinaria disciplina di determinazione del reddito di impresa. L’AdE afferma quindi che, mancando una disposizione volta a rideterminare o limitare il credito d’imposta e essendo il credito R&S puntualmente quantificato e spettante, non può ritenersi riconducibile tra le “posizioni soggettive” ex art. 173 comma 4 del TUIR poiché rappresenta un autonomo elemento del patrimonio della scissa. Pertanto, il credito d’imposta è idoneo a essere oggetto di libera ripartizione tra le parti, in sede di progetto di scissione. Nel caso di specie, dato che nel progetto di scissione non è stata prevista alcuna ripartizione del credito R&S, quest’ultimo si deve ritenere rimasto in capo alla scissa ex art. 2506-bis c.c.

 

Dottrina

  • Successioni: trust e società semplici non sono strumenti intercambiabili”, IlSole24Ore del 19.2.2024, pagina 21: Vi è una crescente attenzione verso le problematiche della pianificazione patrimoniale e del passaggio generazionale, nonché degli strumenti giuridici maggiormente utilizzati in tale ambito. Tra questi ultimi rientrano i trust e le società con funzioni di holding o di “cassaforte” di famiglia. L’abbondante letteratura divulgativa in merito, tuttavia, non coglie le profonde differenze che vi sono tra tali istituti e tende a presentare gli uni e gli altri come se si possa indifferentemente scegliere tra loro. È quindi opportuno provare a fare un po’ di chiarezza, focalizzando l’attenzione sui trust e le società semplici. L’unico punto in comune tra i due strumenti è che consentono entrambi di mantenere unitario il patrimonio in sede successoria, il quale non viene frazionato tra gli eredi bensì resta nel suo insieme nella titolarità del trust o della società semplice. Per quanto riguarda il potere di amministrare il patrimonio, nel trust esso è affidato al trustee con poteri solitamente fiduciari; i beneficiari non hanno potere di ingerenza nella gestione, creando in tal modo una netta separazione tra potere di amministrare il patrimonio e diritto di beneficiarne. Con una società, invece, è possibile definire regole di governance, ma in linea di massima sono gli stessi beneficiari del patrimonio (i soci della società) ad avere il potere di amministrarlo. Sono inoltre molto rilevanti le differenze, in sede di passaggio generazionale, per quel che riguarda la titolarità del patrimonio veicolato tramite tali strumenti. Con il trust gli eredi non ricevono il patrimonio del dante causa secondo le regole della successione bensì, se ancora non lo erano, alla morte del disponente diventano beneficiari del trust per effetto delle disposizioni dell’atto istitutivo. Al contrario, le quote che rappresentano il capitale sociale della società semplice diventano di titolarità degli eredi e si trasmettono successivamente ai loro ulteriori eredi secondo le regole codicistiche della successione. Il patrimonio istituito in trust, inoltre, è un patrimonio segregato che non può essere aggredito né dai creditori del disponente, né dai creditori del trustee, né dai creditori dei beneficiari. Invece, il patrimonio che viene trasferito a una società semplice, sulla base dell’art. 2270 del Codice civile, non beneficia di una protezione particolare.  Anche dal punto di vista fiscale le differenze sono enormi. Le quote della società cadono in successione e scontano la relativa imposta sul loro valore e ciò ad ogni passaggio generazionale, mentre il patrimonio istituito in trust non sconta alcuna imposizione fino al momento in cui lo stesso non viene definitivamente attribuito ai beneficiari. Trust e società, quindi, sono strumenti diversissimi, che non possono essere usati indifferentemente.

 

Attualità

  • Direttiva case green, in Italia fari puntati su 5 milioni di edifici”, IlSole24Ore del 19.2.2024, pagina 2: Ristrutturare gli immobili in classe energetica F e G, rendendoli più efficienti con un lavoro di miglioramento della qualità del patrimonio edilizio che parta dalle unità meno performanti: circa 5 milioni di edifici residenziali. La Direttiva europea case green (Energy performance of buildings directive o “Epbd”) si prepara all’entrata in vigore. La sessione plenaria del Parlamento in programma dall’11 al 14 marzo approverà il testo che, dopo un ultimo passaggio in Consiglio, andrà in Gazzetta Ufficiale. Rispetto alle bozze, in cui c’era l’idea di indicare un livello minimo di efficienza energetica da rispettare per tutti gli edifici, l’ultima versione della direttiva fissa termini parecchio diversi. Bruxelles si occuperà solo di stabilire gli obiettivi generali: il modo in cui si arriverà a rispettare i target, invece, sarà definito in autonomia dagli Stati membri. In base all’art. 9, l’Italia dovrà ridurre il consumo medio di energia del proprio patrimonio residenziale, a partire dal 2020 e fino al 2050, quando lo stock abitativo dovrà essere a zero emissioni. Entro il 2030 la riduzione dovrà essere del 16% ed entro il 2035 del 20-22%. Per rispettare questi parametri, il Governo dovrà disegnare una curva progressiva di abbattimento dei consumi. Senza una classe energetica minima da rispettare, però, è difficile prevedere quali immobili saranno più colpiti. Un passaggio molto significativo della direttiva spiega che il miglioramento dell’efficienza energetica generale degli immobili residenziali non potrà essere raggiunto solo considerando le prestazioni degli edifici nuovi, che ovviamente tendono ad alzare la media. Infatti, i Paesi membri dovranno assicurare che «almeno il 55% della riduzione del consumo di energia primaria sia raggiunto attraverso il rinnovo degli edifici più energivori». Questi edifici, in base alle definizioni della Epbd, costituiscono il 43% di immobili meno efficienti. E andranno riqualificati. In Italia – in base ai dati Istat – ci sono circa 12 milioni di edifici residenziali. Sarà perciò considerato prioritario intervenire sui circa 5 milioni di edifici con le prestazioni peggiori, ognuno dei quali costituito da una o più unità immobiliari. Una difficoltà pratica sta nel fatto che oggi solo una piccola parte delle abitazioni possiede una pagella energetica, perché la legge ne impone l’elaborazione solo in certi casi e ne prevede la scadenza dopo dieci anni. Il database dell’Enea contiene oltre 5 milioni di attestati di prestazione energetica (Ape) riferiti ad altrettante unità immobiliari. Il 51,8% di queste ricade nelle due classi energetiche peggiori: la F e la G. Da qui dovranno probabilmente partire i lavori di riqualificazione imposti dalla Epbd, ma il livellamento verso il basso potrebbe essere così esteso da rendere difficile individuare i fabbricati meno performanti. E a complicare ulteriormente la previsione degli effetti c’è il fatto che molti edifici saranno esclusi. Se questi sono i lavori “taglia-sprechi” da cui partire, ci sarà ancora spazio per la messa in sicurezza antisismica e le ristrutturazioni generiche, le cui agevolazioni servono anche a evitare il nero? La risposta non è banale, soprattutto alla luce della pesante eredità lasciata dal superbonus sulle casse pubbliche.

 

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